Venerdì 29 Novembre ci sarà lo sciopero Generale proclamato da CGIL e UIL per cambiare la manovra di bilancio.
Il Paese sta soffrendo di un impoverimento del lavoro e di una debolezza del Welfare e dello stato sociale che offre ai cittadini e chi governa il Paese dovrebbe intervenire mettendo in campo misure che sostengano le politiche di investimenti nei settori pubblici e privati e che sostengano i redditi delle persone.
Bisognerebbe quindi:
Aumentare i salari rendendo disponibile più reddito alle persone per reggere l’aumento del costo della vita, per sostenere la domanda interna e quindi per far ripartire l’economia.
Avere una strategia di politica industriale per sostenere anche l’occupazione e far riprendere le esportazioni nel nostro paese rendendoci meno dipendenti dalla domanda internazionale.
Investire nel welfare e nello stato sociale a partire dalla sanità pubblica, ricostruendo un rapporto diretto tra fiscalità generale e stato sociale appunto, che riguarda tutti i servizi.
Avere un fisco progressivo e non le 3 aliquote a cui il Governo vuole arrivare che ammazzano la classe media perché la compressione e l’addensamento del prelievo fiscale si inasprisce per i redditi fino a 35.000 euro, quelli delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati. Non la flat-tax che, a parità di reddito favorisce il lavoro autonomo rispetto al lavoro dipendente. Non il concordato fiscale che rappresenta l’ennesimo condono per le imprese.
Infine, bisognerebbe prestare attenzione al differenziale di crescita territoriale se si vuole affrontare realmente il tema delle disuguaglianze.
Sono le proposte che CGIL e UIL hanno fatto al Governo che invece ha scelto di fare altro fin dal suo insediamento.
Solo 4 anni fa L’Europa e il nostro Paese, avendo scelto di cambiare l’orientamento della politica economica, discutevano di come investire la più grande mole di risorse mai movimentata dalla Crisi del 29 ad oggi.
750 miliardi valeva il next generation Eu a cui si aggiungevano le risorse per la politica di coesione dell’Unione Europea (volta a ridurre le disparità di sviluppo fra le regioni degli Stati membri e a rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva) e l’effetto moltiplicatore degli investimenti.
Si trattava di circa 1.300 miliardi di euro che l’Unione Europea aveva messo a disposizione per la transizione ecologica, digitale e di sostenibilità sociale in risposta alla “lezione” della Pandemia.
Tutti ricordiamo gli slogan: La persona al centro. Una sorta di nuovo umanesimo che avrebbe dovuto far prevalere l’interesse economico generale quindi con un riflesso sociale, rispetto all’interesse economico speculativo.
Rispetto agli altri Paesi europei, il nostro era quello con la mole più importante di investimenti in ragione anche di una forbice della disuguaglianza che era e continua ad essere drammatica e che non riguarda solo le differenze territoriali ma anche i differenziali sociali di classe, la distribuzione della ricchezza e le diverse opportunità di cittadinanza.
Questi erano i temi che il Paese doveva affrontare con le risorse messe a disposizione dall’Europa, attraverso un nuovo modello di politica industriale per la transizione ecologica, una nuova amministrazione pubblica per la transizione digitale e un nuovo modello organizzativo dei servizi pubblici per la sostenibilità sociale.
Come CGIL abbiamo condiviso gli obiettivi, ma non gli strumenti e le modalità con cui quegli obiettivi sono stati tradotti nel piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)
Abbiamo ad esempio condiviso gli obiettivi della riforma dell’assistenza socio-sanitaria, il Decreto ministeriale 77/2022, mettendo in evidenza i punti di forza, come ad esempio scommettere sulle case di comunità quali nuovi punti di riorganizzazione dei servizi alla persona nel territorio, ma mettendo anche in evidenza i punti di criticità. Fin da subito infatti abbiamo denunciato che senza un investimento di risorse per l’incremento di personale, ci saremmo trovati di fronte alla realizzazione di strutture nuove, senza le persone per farle funzionare.
Lo stesso abbiamo fatto sulle riforme di sistema che riguardavano la pubblica amministrazione, condividendo gli investimenti a favore della digitalizzazione, dell’innovazione, dell’ottimizzazione dell’organizzazione del lavoro, ma denunciando i mancati investimenti sulle persone che lavorano nella pubblica amministrazione.
L’uscita di 1,2 milioni di dipendenti pubblici dal 2010 al 2030 non accompagnata da processi assunzionali in grado, non solo di compensare le uscite, ma anche di potenziare gli organici (noi chiedevamo del 30%) in linea con quella quantità di investimenti, avrebbe determinato e determinerà la desertificazione dei servizi e della Pubblica Amministrazione.
La Nostra proposta di un piano straordinario delle assunzioni, era ed è la risposta alla drammatica realtà che ci troviamo ancora una volta a discutere con questo Governo.
Nel 2022, mentre il Governo Meloni appena insediato, sottoscriveva la riforma del patto di stabilità e crescita europeo che condiziona anche la politica economica del nostro Paese, l’aumento dei prezzi energetici per via della guerra e l’altissimo aumento della domanda dovuto alla ripresa post pandemia che ha determinato un forte squilibrio tra domanda e offerta, hanno favorito un aumento indiscriminato dei prezzi determinando un tasso di inflazione che nel nostro paese ha raggiunto livelli Record. 100 euro di spesa nel 2021 sono diventati 110 ne 2022
Ma non tutti i paesi in Europa hanno avuto lo stesso andamento dell’inflazione. Ci sono Paesi che hanno controllato la speculazione e Paesi, come il nostro, che non l’hanno fatto.
Quando nel 2022 in Italia noi registravo il record dell’8,9 di media annua, la Germania registrava lo 0,8 grazie all’investimento di 200 miliardi di euro nel suo bilancio pubblico per sostenere la domanda dei consumi e per mitigare gli effetti dell’inflazione.
Quindi, quando il Governo afferma che l’inflazione è colpa della guerra ha ragione solo in parte perché non aver costruito misure di controllo dei prezzi e di contenimento dell’inflazione sostenendo la domanda e quindi i redditi di lavoratrici, lavoratori e pensionati, è responsabilità del Governo italiano.
Cosa ha fatto e cosa fa invece il governo Meloni.
Ha eliminato il reddito di Cittadinanza (unica misura di contrasto alla povertà); ha prodotto una stretta sugli interventi fiscali a discapito del lavoro dipendente e delle pensioni (temperato solo da alcune misure conquistate dalle organizzazioni sindacali come per esempio il cuneo contributivo); alleggerisce la pressione fiscale sul lavoro autonomo e, con il concordato preventivo, mette in atto l’ennesimo condono; non prevede alcun intervento sugli extraprofitti; peggiora la Legge Monti/Fornero; prevede una rivalutazione delle pensioni con un aumento di 3 euro al mese per le pensioni minime, una vera presa in giro a milioni di pensionati e pensionati; totale assenza di una politica industriale e tagli agli investimenti e, con il Disegno di Legge Sicurezza ha sferrato un grave attacco alla libertà di manifestare il dissenso, oltre a quanto fatto per imbavagliare la stampa libera e per minare l’autonomia della magistratura, in totale spregio al dettato costituzionale.
Sul PNRR il Governo ha spostato la stragrande maggioranza degli investimenti previsti, da investimenti nell’economia reale a incentivi alle imprese, senza porre nessuna condizionalità contrariamente a quanto chiesto dalla CGIL. “Si agli incentivi alle Imprese che aumentano il lavoro stabile e l’occupazione”.
Anche gli ultimi dati Istat sull’occupazione evidenziano che la crescita sbandierata dal Governo, è virtuale. Aumentano le teste ma diminuiscono le ore lavorate e la quantità di reddito pro capite. Vuol dire che i salari sono più bassi e che contrati sono più deboli. Anche il dato in incremento dell’occupazione femminile è dovuto all’incremento dei contrati a termine e quindi alla crescita del precariato.
In ottemperanza alle nuove regole del patto di stabilità e crescita che ha sottoscritto con l’Europa, l’Italia dovrà diminuire il suo debito (che a luglio 2024 sfiorava i 2.950 miliardi di euro con un incremento di circa 87 miliardi di euro rispetto a luglio 2023) di 13 miliardi di euro all’anno per i prossimi 7 anni. Si tratta complessivamente di circa 90 miliardi. Una cifra che peraltro corrisponde al dato di evasione fiscale che si registra ogni anno.
E di fronte alle due strade possibili e cioè quella di incrementare le entrate o quella di diminuire le spese, il Governo ha scelto la seconda.
Solo per finanziare le misure già adottate come ad esempio il taglio del cuneo contributivo che da solo cuba circa 13 miliardi, la manovra di bilancio dovrà tagliare tra i 24 e i 26 miliardi di euro di spesa.
Il Ministro dell’economia e finanze Giorgetti continua a dire che la copertura di gran parte dei tagli sarà compensato della spesa inappropriata delle pubbliche amministrazioni. Ma noi che conosciamo bene il bilancio dello Stato e i bilanci dei Comuni, sappiamo che la spesa inappropriata che riguarda il campo dei servizi pubblici è pari a zero.
Già nel 2025 i Comuni, le province e le regioni dovranno tagliare i propri servizi per circa 350 milioni di euro. Nei due anni successivi – si legge nel Documento programmatico di bilancio (Dpb) approvato dal governo Meloni – i sacrifici che dovranno imporre ai loro cittadini saranno più gravosi: nel 2026 saranno tagliati circa 550 milioni, nel 2027 circa 600 milioni.
In totale, circa un miliardo e mezzo di euro di tagli in più che si sommeranno al miliardo già tolto dalla legge finanziaria precedente.
Appare evidente che il piano del Governo è distruggere la funzionalità dell’Amministrazione pubblica. Piuttosto che porsi il tema di come riorganizzare la fiscalità locale, continua con il progressivo disinvestimento nella pubblica amministrazione al quale assistiamo da anni e, sapendo che la stragrande maggioranza dei bilanci dei Comuni sono già in sofferenza, proroga la norma che tutela gli enti che vanno in dissesto.
Trascura il fatto che la pubblica amministrazione rappresenta il perno fondamentale del funzionamento del nostro Paese.
Anche la Corte dei Conti rispetto al piano strutturale di Bilancio del Governo, afferma che ci saranno tagli ai finanziamenti e riforme per diminuire la quantità delle prestazioni e dei servizi erogati ai cittadini, da Stato, Regioni e Comuni. Non solo quelli diretti ma anche quelli indiretti perché se si tagliano i fondi ai comuni e alle regioni, non ci sono nemmeno le risorse per gli appalti. Quindi la riduzione e la contrazione dei servizi pubblici è generale e cambia il connotato di cittadinanza.
E se il pubblico arretra, aumenta lo spazio delle privatizzazioni. Lo abbiamo visto in sanità, nelle politiche sociali e nell’assistenza alla persona, nei servizi Educativi.
E se estendiamo le privatizzazioni a tutti i servizi pubblici verranno colpite soprattutto le fasce economiche più fragili, del nord come del sud.
I riflessi su alcuni servizi
Con il Piano Strutturale di Bilancio (Psb) di medio termine, sui servizi all’infanzia il Governo sceglie di differenziare gli standards regionali da quelli nazionali, con ciò aggravando i divari invece di colmarli.
L’obiettivo fissato dal governo Draghi con la legge di bilancio 2022 che per la prima volta in Italia definiva un livello essenziale delle prestazioni (Lep), prevedeva di garantire entro il 2027 su tutto il territorio nazionale la copertura di posti nido, ad almeno il 33% dei bambini sotto i tre anni finanziando progressivamente l’incremento del costo del servizio asili nido:
120 milioni per il 2022, 175 per il 2023, 230 nel 2024, 300 nel 2025, 450 nel 2026 e 1 miliardo e 100 a decorrere dal 2027.
Oggi il Piano strutturale e di bilancio 2025-2029, pone l’obiettivo a un 15% di copertura su base regionale, con l’esito quindi di pregiudicare il raggiungimento dell’obiettivo del 33% a livello nazionale. Un ridimensionamento che riguarda circa i tre quarti degli asili nido finanziati con fondi Pnrr.
Anziché cercare una soluzione per garantire servizi educativi diffusi e di qualità su tutto il territorio nazionale, ancora una volta ci troviamo di fronte ad una scelta al ribasso che accentua le attuali disuguaglianze territoriali, penalizzando bambine e bambini del Mezzogiorno e delle aree interne, che già dispongono di una dotazione di servizi più limitata.
Al contrario, noi riteniamo che sia sempre più urgente dare corso ad un piano straordinario di assunzioni che garantisca in tutti i territori di raggiungere il 45% di copertura dei servizi all’infanzia al 2030, come peraltro sancito dal target europeo.
Sulla sanità il Ministro Schillaci aveva detto alle regioni che dai 2 ai 3 miliardi sarebbero stati assicurati. In realtà si tratta di 1,2 miliardi, come si è affrettato a dire il Ministro Giorgetti, di cui forse 900 milioni sul Fondo Sanitario Nazionale e il resto, forse 300 milioni, sono i maggiori oneri derivanti dal rinnovo del contratto collettivo del personale per il triennio 2025 – 2027. Pur sapendo che sul Fondo Sanitario Nazionale mancano all’appello 7 miliardi.
Sempre Giorgetti ha aggiunto che la prospettiva di crescita degli investimenti sulla sanità e sui servizi pubblici saranno proporzionali all’andamento del PIL.
Ma se è prevista la contrazione del PIL, come peraltro confermato dal centro studi di Confindustria che non ha potuto non dire che la prospettiva prevista dal nuovo patto di stabilità e crescita produrrà nei prossimi anni una contrazione del PIL, è chiaro che ci sarà una contrazione della spesa pubblica, sanità compresa.
Se in più si riduce anche la percentuale di finanziamento sulla sanità rispetto al PIL siamo difronte alla disintegrazione del Servizio sanitario nazionale.
Già oggi inoltre registriamo che la percentuale di risorse per la sanità rispetto al PIL si è pesantemente ridotta, dal 7,35% nel 2020 al 6,30% nel 2024 con la previsione di arrivale al 6,26% nel 2026, ponendoci agli ultimi posti rispetto all’Europa.
Il diritto alla salute, il diritto ad avere risposte adeguate in termini di servizi pubblici ai bisogni delle persone, rappresentano un diritto primario delle persone, un bene che ha lo stesso identico valore universale che ha l’acqua. Se ci privano della salute e dell’assistenza ci privano di tutto.
Già oggi siamo privati in gran parte del diritto all’assistenza e alla salute e nonostante tutti i guasti al servizio sanitario nazionale, dei servizi di welfare, gli operatori della sanità e dei servizi pubblici con il loro impegno e la loro competenza professionale, continuano a garantire il diritto alla salute, all’assistenza e all’educazione. Pur nella farraginosità organizzativa.
Da domani non sarà più così.
Altra voce sulla quale il Governo Meloni interviene è la spesa per il personale, programmandone una riduzione per i prossimi anni. Oltre a non assumere, riduce le dotazioni organiche definendo il limite del turn over al 75% e decide di contenere la spesa per il salario dei dipendenti pubblici.
Le retribuzioni dei dipendenti pubblici sono ferme al palo perché il Governo non ha stanziato le risorse adeguate per tutelare il potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori della pubblica amministrazione.
La stessa Aran certifica quello che stiamo dicendo inascoltati da mesi.
Mentre con le precedenti tornate contrattuali abbiamo più che recuperato quanto perso a causa dell’inflazione (+3,48% nel triennio 2016-2018 a fronte di un’inflazione nello stesso periodo dell’1,8% e +4,07% nel triennio 2019-2021 a fronte di un’inflazione nello stesso periodo del 2,2%), nel triennio 2022-2024, a fronte di un’inflazione del 16,5%, il Governo ha deciso che alle Lavoratrici e Lavoratori pubblici deve bastare un incremento delle retribuzioni pari al 5,78%. Ben 10 punti di distanza in negativo che comportano una riduzione del potere di acquisto di 2/3.
Tra l’altro decidendo unilateralmente di anticipare la metà di quell’incremento in un’unica soluzione a dicembre 2023, Il Governo ha determinato una riduzione durante il 2024 come evidenziato nel rapporto semestrale ARAN, oltre che, per molti, la restituzione delle somme percepite a dicembre 2023 a causa dell’aumento correlato delle tasse, nel corso del 2024.
Come se non bastasse, nelle linee di indirizzo date all’ARAN per il rinnovo dei contratti, il Governo mantiene il blocco dell’articolo 23 sul salario accessorio e quindi sulla contrattazione decentrata, toglie alla contrattazione alcune competenze che avevano riconquistato nei CCNL 19- 21 – dallo Smart Working alla contrattazione dei riflessi che derivano dalle innovazioni organizzative. (Non contrattiamo l’organizzazione del lavoro per legge ma, contrattandone i riflessi riuscivamo a discuterla) mantiene la limitazione delle agibilità sindacali. Questione con la quale facciamo i conti dal 2015.
Se il contratto nazionale non è più autorità salariale e se nel contratto decentrato sono sempre meno le materie che sono disponibili alla contrattazione, il nostro ruolo assieme a quello delle delegate e dei delegati e la possibilità di intervenire sulle condizioni di lavoro a cosa si riduce? Che strumenti abbiamo?
Noi i contratti li vogliamo rinnovare ma vogliamo che siano dei buoni contratti.
La rottura sul Contratto delle Funzioni Centrali è stata provocata da una scelta politica del Governo ma la nostra non sottoscrizione è sul merito dei contenuti. Non abbiamo firmato perché non ci sono le risposte alla lavoratrici e ai lavoratori.
Per queste ragioni continuiamo a chiedere che il Governo aumenti le risorse che ha previsto sul rinnovo dei contratti 2022-2024 e che rimuova definitivamente il tetto ai fondi per la contrattazione decentrata. La contrattazione e il contratto devono poter dare risposte adeguate alle lavoratrici e ai lavoratori pubblici.
La battaglia che dobbiamo continuare a fare sul rinnovo dei contratti collettivi nazionali non è solo per difenderli dall’impoverimento salariale e dal mancato adeguamento all’inflazione, è la battaglia per difendere la funzione e il valore della contrattazione e del contratto nazionale. A maggior ragione nei confronti del Datore di lavoro pubblico che, oltre a essere il più grande, è il peggior datore di lavoro che abbiamo nel nostro paese.
Nemmeno i datori di lavoro privati, fino ad oggi sono arrivati a tanto. Ma se il datore di lavoro pubblico annulla quella funzione e quel valore, da domani anche i datori di lavoro privati si sentiranno legittimati a fare lo stesso.
Di fronte quindi ad un attacco che non è semplicemente al salario ma è alla struttura della contrattazione della pubblica amministrazione, non possiamo che intensificare la nostra mobilitazione.
Con questa legge di Bilancio, ci stanno dicendo apertamente che i prossimi saranno anni di lacrime e sangue con una prospettiva di impoverimento sociale vista la mancanza di investimenti nell’economia reale a sostegno delle persone e dei redditi. Ma c’è un altro grande scoglio davanti a noi che si chiama autonomia differenziata.
Il disegno dell’autonomia differenziata è abbastanza chiaro: Spostare la responsabilità del fallimento amministrativo dal centro verso la periferia: Non sarà più colpa dello Stato. Sarà colpa del Presidente della regione, colpa del sindaco, se l’amministrazione pubblica non funziona e per questo dovrebbero essere i primi ad essere consapevoli che quello che gli sta arrivando addosso è uno tsunami.
L’autonomia differenziata è la rottura dell’unità nazionale che danneggia tutti il nord come il sud e provoca dei disastri dal punto di vista istituzionale.
Le regioni dovranno sottoscrivere degli accordi bilaterali, come se fossero stati autonomi che contrattano con uno stato centrale, non su quali delle 23 materie vogliono delegate, ma all’interno delle materie, quali delle 500 funzioni scelgono di avere.
Il Veneto, ad esempio, oltre alla sanità ha scelto di avere la competenza per il personale andando quindi verso una sua contrattazione di primo livello con tutto quel che ne consegue. Ma ci possono essere regioni che non chiedono la funzione di gestione del personale.
Tale situazione metterà in concorrenza il contratto collettivo nazionale, che si continua ad applicare ad alcune regioni con il contratto collettivo regionale della sanità per lo stesso personale e noi abbiamo visto che quando c’è concorrenza tra i contratti, il dumping, abbassa i salari.
La geometria variabile delle funzioni che si determina, inoltre, cambia il perimetro dello stato che dovrà continuare a garantire le funzioni che le regioni non chiedono. Non ci sono quindi solo ricadute sul personale ma anche sull’ordinamento della Pubblica amministrazione. Senza 1 euro di investimento, ma al contrario, con una ingente programmazione di tagli di risorse.
Dire che i servizi vengono finanziati dalla capacità di prelievo fiscale territoriale vuol dire che al nord come al sud si arrangiano con le risorse che ricavano. E anche se stai un po’ meglio il trasferimento erariale non è mai compensato al 100%.
In sanità è già così. I livelli essenziali delle prestazioni (Lep), dovrebbero essere il target minimo garantito da tutte le Regioni che le stesse possono poi migliorare. Oggi sono diventati il Target massimo. Alcune Regioni festeggiano quando riescono ad arrivare al 60%. È per questo che noi diciamo che L’Autonomia differenziata è la secessione dei Ricchi. Non del nord contro il sud, ma di chi ha la possibilità di pagarsi i servizi rivolgendosi al privato e chi, come noi, lavoratori dipendenti dovrà accontentarsi del welfare, a quel punto residuale.
Anche la Corte costituzionale ha bocciato l’autonomia differenziata del Governo Meloni ritenendo illegittime e anticostituzionali alcune disposizioni del testo legislativo
Servirebbe una politica cosiddetta anticiclica con l’intervento della Stato e quindi del regolatore pubblico che avrebbe il compito di correggere le distorsioni del mercato e dell’economia che altrimenti, come accade si autoregolano per i loro interessi che non sono quelli generali.
Servirebbero investimenti e contratti che diano dignità al lavoro pubblico visto anche la scarsa fascinazione che sta avendo la pubblica amministrazione quando vengono banditi i concorsi pubblici, ma anche per un finanziamento strutturale sui servizi pubblici a partire dalla sanità.
Appare invece evidente che nell’azione del Governo non ci sono le basi strutturali sulle quali si possa innestare la crescita del nostro paese.
Sono le ragioni che ci hanno portato agli scioperi che abbiamo alle spalle degli ultimi 2 anni dove abbiamo criticato l’impianto di fondo della politica economica del governo Meloni e sono le ragioni che noi abbiamo ri-proposto nell’agenda di mobilitazione di questo autunno.
E per questo che insieme alle confederazioni cgil e uil, la categoria, anche attraverso la mobilitazione nazionale che abbiamo fatto il 19 ottobre a Roma, è in prima linea per sostenere le ragioni di queste due grandi vertenze. Quella per dare più qualità e più risorse ai servizi pubblici e quella per avere un giusto contratto di lavoro.
E insieme a tante cittadine e cittadini e agli studenti siamo stati nelle piazze contro il Ddl sicurezza che rappresenta un attacco alla rappresentanza sociale, il tentativo di soffocare la libera informazione e la volontà di restringere gli spazi di libertà di manifestazione. Spazi peraltro garantiti dalla costituzione.
Bisogna leggerlo bene il Ddl sicurezza. Che senso ha dire che un cittadino extra Ue che non può comprare una SIM cioè non può comunicare con il resto del mondo, se non la volontà di creare uno stato di polizia che si contrappone allo stato di diritto.
C’è una limitazione delle agibilità che si è resa evidente con i problemi che abbiamo dovuto affrontare per organizzare la manifestazione del 19 di ottobre. Non ci autorizzavano gli spazi, non ci autorizzavano i cortei. Le prefetture intervengono in maniere sempre più ricorrente nei nostri settori con il ricorso alla precettazione in occasione degli scioperi, la commissione di garanzia convoca le organizzazioni sindacali per sospendere gli scioperi nell’anno del giubileo. E’ di fronte ai tentativi di attaccare il diritto di sciopero che a maggior ragione dobbiamo essere in campo con una forte reazione popolare e democratica.
Come avvenne quando c’è stato l’assalto fascista alla nostra sede della CGIL. La reazione popolare è stata la più grande risposta politica e ha cambiato la narrazione che c’era nei primi momenti rispetto a quello che era accaduto nei confronti della sede della CGIL.
L’attacco alla libertà di manifestazione del dissenso, non riguarda solo le organizzazioni che sono in grado di reggere l’urto come la nostra, ma riguardano ad esempio gli studenti che decideranno di occupare le scuole e le Università nei prossimi mesi contro le misure del Ministro Valditara. Li arresteranno?
Pensiamo ci siano tutte le ragioni per andare avanti convinti e decisi con tutte le lavoratrici e lavoratori di tutti i nostri settori pubblici privati, per difendere la sanità e i servizi pubblici, per il rinnovo dei contratti, contro l’autonomia differenzia e per la libertà di manifestare il dissenso. E se crediamo che l’entità dello scontro sia questa, non possiamo che intensificare la nostra mobilitazione attraverso lo sciopero generale di tutto il mondo del lavoro e dei pensionati del 29 Novembre prossimo che vedrà manifestazioni in tutti i territori.
A Bologna si terrà la manifestazione regionale con concentramento a Porta Lame alle ore 9,00 e poi con il corteo che arriverà in Piazza Maggiore alle ore 10,30. Chiuderà la Manifestazione il Segretario Generale della CGIL Maurizio Landini.
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